(Gazzetta del Mezzogiorno, 23 Marzo 2019)
Nel 1954 il politologo Banfield si è recato a Chiaromonte (PZ) per elaborare la teoria del familismo amorale: i chiaromontesi non si occupavano di problemi di pubblico interesse perché «massimizzavano i vantaggi materiali immediati del proprio nucleo familiare, supponendo che gli altri facessero lo stesso.» La critica del sociologo Cancian a tale teoria offre, invece, una spiegazione alternativa circa i motivi che inducevano quelle persone a non associarsi per il bene comune: si trattava di una società stratificata in rigidi status e in cui per ciascun ruolo sociale esistevano precisi ed infungibili compiti. Ciò valeva specialmente per le responsabilità della pubblica amministrazione. Dunque, soltanto i funzionari pubblici dovevano occuparsi di problemi di pubblico interesse, mentre il privato cittadino aveva la sola funzione di delegare loro la gestione di tali problemi mediante il voto. Stando così le cose, perché mai un privato cittadino doveva immischiarsi in simili faccende? «Il cav. Rossi, sindaco del vicino paese di Capa, se si recasse, in qualità di sindaco, a parlare al prefetto di Potenza, otterrebbe ascolto: ma egli afferma che se lo facesse come privato cittadino di Chiaromonte, gli potrebbero chiedere: ma lei chi è? […] Non soltanto le autorità non prestano ascolto ai cittadini, ma da parte loro i privati cittadini non assumono responsabilità delle cose pubbliche. […] Si aspettano che il sindaco faccia tutto: che trasformi il mondo.» (Banfield, 1976: 107). Partendo da questa rilevazione, il sociologo Pizzorno ricorda che, nella tradizione giuridica romana, la trattativa tra il cittadino privato e l’amministratore pubblico non era prevista, a garanzia della tutela di tutti gli interessi privati non rappresentati nella fattispecie di una singola trattativa tra un privato cittadino e l’amministratore pubblico.Da simili osservazioni si può ipotizzare che i chiaromontesi, invece di agire secondo l’implicazione logica del familismo amorale per cui «soltanto i funzionari si occupano della cosa pubblica. Che un privato cittadino si interessi seriamente a un problema pubblico è considerato anomalo e perfino sconveniente», seguivano piuttosto una teoria di senso comune o rappresentazione sociale, desunta dalla fonte ufficiale rappresentata dal diritto. La teoria delle rappresentazioni sociali di Moscovici sottolinea la natura sociale delle strategie che le persone adottano per comprendere la realtà: mediante teorie ingenue, esse organizzano le informazioni di rilevanza sociale tipiche del proprio contesto socio-culturale e indispensabili nei rapporti interpersonali. Pertanto, è ipotizzabile che, dalla fonte ufficiale della tradizione giuridica romana, che non prevedeva la trattativa tra privato cittadino e pubblico funzionario, i cittadini chiaromontesi abbiano desunto la teoria di senso comune per cui ritengono sconveniente e anomalo occuparsi di problemi di pubblico interesse. Dunque, essi avrebbero “oggettivato” dal diritto informazioni che, sotto forma di opinioni, sarebbero diventate teorie di senso comune. Ciò spiegherebbe perché, in base alle rilevazioni di Banfield, «è il sindaco che debba far tutto,» mentre i cittadini chiaromontesi ritenevano sconveniente occuparsi di problemi pubblici. L’ipotesi avanzata nel presente articolo è quella per cui i chiaromontesi non si associavano per gestire problemi di interesse pubblico per via di due teorie di senso comune: solo i funzionari pubblici si occupano della cosa pubblica; è sconveniente che un privato cittadino si occupi di faccende pubbliche. Se è vero che i chiaromontesi e, in generale, i lucani della seconda metà del Novecento non si associavano per il bene comune perché frenati da simili rappresentazioni sociali, è plausibile che queste ultime siano arrivate fino ai giorni nostri attraverso i meccanismi educativi della socializzazione e determinando l’attuale gap tra privati cittadini e cosa pubblica. Pertanto, i lucani risulterebbero estranei alle faccende di interesse pubblico non perché familisti amorali, ma perché immersi in un contesto socio-culturale in cui potrebbero essersi sedimentate teorie di senso comune che li tengono ben lontani dalla gestione del bene comune, in quanto solo i funzionari pubblici sarebbero tenuti a farlo.
Miriam Matteo
“Non chiederti cosa il tuo paese può fare per te ma chiediti cosa tu puoi fare per il tuo paese”
Anche se tutti scappano, anche se tutti si chiedono perchè mai dovremmo restare e investire in Basilicata, se qui non è possibile vivere con dignità, dare corpo alle nostre aspirazioni, mettere in gioco le nostre competenze; Anche se tutte le condizioni remano contro, noi crediamo ancora di essere una risorsa per questa Regione, se la Basilicata ha bisogno di essere ricostruita ripartendo dai giovani noi sappiamo di doverlo e poterlo fare; Anche se sappiamo che fuggire può essere la strada più semplice, sappiamo che spesso è necessario ed inevitabile, ma noi vogliamo restare qui e sappiamo che l’alternativa alla fuga dipende anche da noi. Noi giovani dobbiamo avere un ruolo importante nella vita delle nostre comunità; Noi giovani dobbiamo avere il coraggio di metterci in gioco dando spazio alla forza delle nostre idee. Noi giovani abbiamo il dovere di smuovere le coscienze dei nostri coetanei, di tutti coloro i quali non credono più nelle loro potenzialità e di quelle del territorio; Crediamo sia importante incontrarsi e aggregarsi, conoscersi e scambiare pareri anche davanti ad un semplice e caldo caffè. La parola d’ordine è “l’unione fa la forza”: ciò non significa essere contro qualcuno, ma lavorare con in testa l’interesse comune, con un riguardo particolare ai bisogni ed alle esigenze della giovane Generazione Lucana.
Michele Incampo
Il fuori sede. Due parole, tante riflessioni.
La parola fuori sede racchiude tante cose: speranza, dispiacere, ambizione, distacco. Si crea un cerco distacco emotivo con la tua terra, perché il fuori sede pensa che la sua terra non lo vuole più, non ci pensa più a lui; e quindi si sente tradito, amareggiato e costretto a trovare una nuova casa. Ma la sua vera casa, nell’angolo più remoto del suo cuore, spera sarà ancora la Basilicata. Cerchiamo, di incontrare i fuori sede in punti di piedi, con delicatezza; certo molti di noi lo sono stati, ma ogni situazione, ogni valigia è diversa dalle altre. “Perché i lucani fuori dalla terra riescono ad affermarsi, anche nei campi più prestigiosi, e in Basilicata invece no?” Questa una delle prime riflessioni che abbiamo portato a casa, donateci da adulti fuori sede, che quel cordone ombelicale con la Basilicata non lo taglieranno mai, malgrado siano già fiorentini, senesi, o romani d’adozione. E quindi in Basilicata mancherebbero le condizioni per crescere, per formarsi, e poi per affermarsi. Come se fosse una terra arida, quando Generazione Lucana pensa che la Regione, e soprattutto i piccoli comuni, possono essere un nuovo modello di sperimentazione della vita cittadina. C’è una fase della vita del fuori sede che sente il desiderio di tornare, solitamente poco dopo la fine del percorso universitario, quando ci si trova nel limbo del “scendo, o non scendo?”; quasi come se fosse in trappola e che già conoscesse le conseguenze del non ritorno. Perché, come ci è stato detto, “O si torna presto, o non si torna più”. Poi incontrando l’associazione lucani a Siena, abbiamo avuto la sensazione di essere a casa. Loro sentono l’identità lucana; nelle loro vene scorre sangue lucano; sono apprezzati professionisti nel contesto della città; tornando di tanto in tanto, per prendere una boccata d’aria, ma sentono anche la voglia di aiutare (anche economicamente se potessero) cercando di investire le loro forze sul territorio lucano. Ma abbiamo mai creato un ponte con loro? Abbiamo mai davvero avuto voglia di intraprendere una strada comune, che vedesse loro protagonisti? E abbiamo mai ascoltato le loro idee per la Basilicata? La risposta la conosciamo. Ma siamo ancora in tempo per cambiarla.
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